Questo sito usa i COOKIE

Categoria: Racconti
Visite: 2023
Condividi

 

         Una bella avventura        

 

Il naufragio

Era arrivata finalmente l’estate e con lei il mio primo lavoro su una nave. Avrei viaggiato per mare! era stato sempre il mio sogno.

A dire il vero sarei stato un semplice mozzo, ma a me non importava, pur di navigare in mare aperto, avrei fatto di tutto, se necessario anche il pappagallo appollaiato sulla spalla del comandante!!

Poi se ci pensate bene, anche un semplice mozzo ha le sue responsabilità, non pulisce solo il ponte e gli altri ambienti, ma segnala eventuali guasti, si occupa del carico e dello scarico delle merci, ormeggia la nave, tutti impegni questi, non di poco conto e per svolgerli al meglio ci vuole un fisico resistente e forte e io, con i miei vent’anni, mi sentivo di alzare la nave anche con un dito.

Niente mi spaventava, nemmeno quel cielo oscuro e sinistro che salpava con me inaugurando il viaggio e che, a guardarlo bene, non prometteva niente di buono, anzi minacciava tempesta e mare grosso.

Così dopo nemmeno due giorni di navigazione, quella che sembrava solo una semplice intuizione, si rivelò invece una previsione più che azzeccata, infatti il tempo peggiorò in modo inesorabile. Le onde terribilmente alte ed il vento fortissimo sballottavano la nave, facendola impennare paurosamente  per poi farla ricadere pesantemente sull’acqua.

Sembrava una balena che arpionata, si dibatteva furiosamente per scampare alla morte.

Tutti correvano di qua e di là, sopra il ponte, nella stiva, sembravano impazziti e il timone era ingovernabile:Il mare ci stava inghiottendo e le speranze di farcela erano davvero poche.

Mentre guardavo lo sfacelo intorno, uno dei tanti pesanti barili rotolava verso di me, mi veniva addosso in picchiata…… poi il buio più nero.

 

 

L’isola

Me ne sto seduto sulla sabbia a guardare sconsolato l’orizzonte, intorno a me solo acqua, cielo e verde. Nient’altro.

Sono completamente solo, ignaro di come fossi arrivato lì e cosa ci facessi.

Girando la testa avverto un gran dolore e toccandomi la fronte, mi accorgo che sanguina, mi preoccupo ancora di più.

Cosa mi era accaduto? Ma soprattutto, dove ero finito?

Mi sforzo di ricordare…

Ma certo!!! Il mio primo incarico su una nave mercantile era finito nel peggiore dei modi ed ora non mi restava altro che prendere coscienza della situazione e di quello che ero diventato: un sopravvissuto, anzi un naufrago.

Quanti film avevo visto al riguardo, però ora niente era finto, eh no, ero su un’isola completamente deserta e per di più, da solo. Vengo preso dallo sconforto più totale e, pensando alla triste sorte dei miei compagni e della nave, comincio a piangere come un bambino che non trova la sua mamma. Ma la stanchezza è così grande che, sfinito sprofondo in un sonno senza fine.

Al risveglio, con amarezza scopro che tutto è come prima, nulla è cambiato, io sempre lì con sopra di me il cielo, davanti l’oceano sconfinato e dietro, la ricca vegetazione.

Mi faccio forza e comincio a pensare a come fare per andarmene da quel posto sperduto. Però prima forse devo pensare a sopravvivere!

Accendere il fuoco, mangiare, trovare un riparo e…..costruire una zattera.

Più facile a dirsi che a farsi.

Decido di fare un giro per “esplorare” l’isola, cercando cercando, forse mi sarebbe venuta qualche idea.

Cammino a piedi nudi che diventano sempre più doloranti, ma continuo imperterrito ad andare avanti, deciso a scoprire chissà chi e chissà cosa, con estrema fatica e lentezza in mezzo a tutta quella fittissima vegetazione.

All’improvviso qualcosa mi risucchia, mi avvolge  sempre più stretto e mi ritrovo dentro una rete, impigliato come un pesce e più mi muovevo, più mi annodavo su me stesso.

Una trappola!

Finito in una misera trappola per animali.

Quindi non sono poi così solo!! e mentre realizzo l’idea, intorno a me in un attimo si forma un folto gruppo di strani uomini, con il corpo completamente dipinto e curiose maschere sul volto, che mi guardano ferocemente incuriositi.

Mi portano al villaggio e mi chiudono in una rudimentale gabbia di legno, guardato a vista e nutrito (si fa per dire) con intrugli strani, nel colore e nel sapore.

Alla stessa ora di ogni giorno poi, ballano una strana danza intorno alla mia gabbia.

Sarà la danza della pioggia? No, quella è tipica degli indiani! E poi perché mai dovrebbero volere la pioggia?!?

Allora sarà per propiziarsi qualche divinità, eh si, deve essere così.

Già, il problema però è perché?

Cosa c’entra con me?

Comincio a temere il peggio e a maledire la mia passione per la navigazione che  mi ha portato fino a qui!

Invece dopo nemmeno una settimana (la più lunga della mia vita), la gabbia si apre e mi fanno accomodare (parola grossa lo so),diciamo “accovacciare” in mezzo a loro e a gesti, mi fanno capire che non sono nemici e che sono il benvenuto.

Forse la loro divinità ha “garantito” per me e a questo punto la ringrazio anch’io.

Pian piano comincio ad ambientarmi, non si sta poi così male e anche gli indigeni sono, a  loro modo, cordiali. Selvaggi certo, ma affatto cattivi.

Mi insegnano i trucchi di caccia e pesca, a riconoscere dalle orme o dal verso i tanti e diversi animali, pericolosi o velenosi che vivono lì. In cambio io racconto di come è il mondo dall’altra parte dell’isola, delle macchine, dei telefoni, delle tante comodità, ecc..ma soprattutto della fretta  che contraddistingue le giornate di noi “uomini evoluti”.

Un corri corri che loro,ovviamente non conoscono. Hanno i loro tempi scanditi dal sole, dalla luna, dalle stagioni e poi sono così legati gli uni agli altri, così “vicini” da formare veramente un’unica grande famiglia.  Hanno tanto tempo da dedicare a loro stessi, da fare quasi invidia.

Insegno ai bambini a leggere, a scrivere e a fare i nodi da marinaio.

Quando  la sera però mi ritrovo solo nella mia capanna, la nostalgia del mio mondo e della mia vita, diventa immensa come la voglia di tornarci.

Ne parlo con gli  amici indigeni che, vedendo in me sempre un velo di tristezza, decidono di aiutarmi a costruire  un’imbarcazione e a lasciarmi andare.

Così è.

La zattera è pronta, carico qualche provvista, saluto e abbraccio tutti con gratitudine e affetto, con la promessa di tornare, quindi prendo il largo.

Sono di nuovo in mare, questa volta però non come semplice mozzo, bensì come comandante della piccola e primitiva barca che mi riporterà finalmente a casa.

 

Grazia

Condividi
comments